Presentazione
a cura di Marco Aime
“In una nota all’Accademia delle Scienze del 1900, Auguste Chevalier faceva nascere la zona sud-sahariana del Sahel oggi riconosciuta dal mondo scientifico”.
Così, alla fine una discussione accademica è nata la nozione di Sahel, parola che in arabo vuol dire “sponda”. Ma cos’è davvero il Sahel? Potremmo limitarci a dire che è una striscia lunga 8500 Km, vasta circa 6 milioni di Kmq, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Malì, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritea) definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche.
Non è semplice indicare i confini del Sahel: a nord chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara? Sabbia e terra vanno via via fondendosi e ogni sera la prima sembra aver vinto la battaglia quotidiana. A Sud, invece, la zona semi-arida sfuma progressivamente nelle verdi savane delle grandi pianure solcate dai fiumi che si gettano nell’oceano.
Ma potremmo anche dire che esiste più di un Sahel: quello climatico-ambientale; quello storico, legato ai grandi regni dell’oro e alla religione islamica, quello culturale, caratterizzato dall’incontro tra la cultura araba e quella locale una grande e oggi quello bellico-strategico, in cui si gioca una grande partita tra il terrorismo jihadista, gli stati saheliani, le potenze straniere e la popolazione.
I limiti del Sahel climatico-ambientale coincidono più o meno con le linee pluviometriche: da 100mm/anno a nord, 600 a sud. Quando le piogge rimangono sotto i 150mm/anno, la vegetazione non riesce a raggiungere una consistenza tale da rallentare il trasporto di sabbia del vento sahariano.
Per chi arrivava da nord, era la terra in cui l’Africa ricominciava a vivere, a essere popolata; per chi arrivava da sud era l’inizio della fatica e della solitudine. Una frontiera vera e propria , dove a incontrarsi non sono state solo le sabbie sahariane con le terre umide della savana, ma anche la tradizione delle popolazioni locali legate al mondo nero con la cultura islamica, venuta dall’est e giunta da queste parti attorno all’anno Mille.
Le diverse combinazioni di queste due espressioni hanno dato vita a culture specifiche, che spesso mescolano tratti dell’una o dell’altra, facendole convivere in una dimensione nuova. È di questa cicatrice sul mondo, che ci parlano i racconti di p. Mauro Armanino, piccole/grandi storie quotidiane, che partono dal basso per aprirci lo sguardo su un orizzonte molto più ampio, fatto di drammi quotidiani, di sofferenze per il clima e per la mano crudele di certi uomini.
Storie che partono da lontano per arrivare fino a noi, così come molte donne, uomini e bambini, sono partiti da lontano, per cercare qui un futuro migliore. Le storie che p. Mauro ci racconta, con il suo stile scarno, asciutto, non sono ammantate di esotismo e se c’è un “mal d’Africa” è quello degli africani che ci vivono, non degli europei affascinati dal quel continente.
Storie che ci sono vicine, perché potrebbero insegnarci a capire che il nostro destino è inevitabilmente legato a quelle persone, a quei villaggi, a quelle savane aride.
Intanto un’Europa schizofrenica (o ipocrita) da un lato si proclama portatrice di valori come uguaglianza, democrazia e libertà, e dall’altra investe sempre più denaro in armi e operazioni militari per fermare chi fugge da una tragedia.
Peggio, subappalta il lavoro sporco a Paesi come Libia o Turchia, lavandosi così le mani spostando i propri confini ai limiti del Sahara. Come sempre accade è un problema di frontiere. Quelle frontiere della cui creazione spesso acquisiamo la natura.
La natura è assolutamente innocente rispetto alle nostre malefatte. Siamo noi, che per decreto, trasformiamo un fiume, una catena montuosa o molto più spesso una linea immaginaria, in frontiera, e come ci dice p. Armanino, la frontiera che è dentro di noi è la più pericolosa, perché genera tutte le altre.
Foto: Wikipedia, Olivier Girard
Marco Aime