Il 7 aprile 2019 il Ruanda ha commemorato il venticinquesimo anniversario del genocidio. In quei cento giorni di follia – tra il 7 aprile e il 4 luglio 1994 – si è consumata un’ecatombe di bambini, donne e uomini in un piccolo stato dell’Africa centrale. Per capire come sia stato possibile proponiamo uno Speciale diviso in due parti, dedicato a un genocidio che si poteva evitare.
Seconda Parte
Duecento luoghi per mantenere viva la memoria
Il Ruanda, situato al centro di due formazioni montuose (per questo è chiamato il Paese dalle mille colline), nell’aprile 2019, ha ricordato il 25° anniversario del genocidio. Camminando per le vie delle città e dei villaggi si respira ancora un clima di angoscia per quanto è accaduto fra l’aprile e il luglio 1994. Nonostante le ferite non si siano ancora rimarginate, i ruandesi hanno deciso di conservare quei luoghi in cui si sono verificati terribili massacri. Lo scopo è quello di preservare la memoria del genocidio affinché le future generazioni, non solo ruandesi o africane, non cadano mai più in un simile baratro di orrore. Sono stati trasformati in monumenti commemorativi ben duecento luoghi. Tra essi figura la chiesa di Nyamata in cui circa 2500 persone, perlopiù donne e bambini, furono stipate al suo interno e uccise con il lancio, da parte delle milizie del vecchio regime, di bombe a mano. Altri luoghi “simbolo” sono diventati la scuola di Murami, dove furono uccise 27 mila persone; il centro di Bisesero, situato sulle colline di Kibuye, nella provincia occidentale del Ruanda, in cui morirono circa 30 mila civili e Nyanza.
Qui duemila rifugiati Tutsi vennero barbaramente uccisi, dopo che i caschi blu furono ritirati su decisione dell’ONU. Proprio a Nyanza, si trova un cimitero in cui centinaia di croci di legno simboleggiano l’abbandono del Ruanda da parte della comunità internazionale. Gli effetti del genocidio, dopo dieci anni, sono drammaticamente visibili. L’UNICEF, nel 2004, ha diffuso dati allarmanti. La percentuale di bambini capo-famiglia in Ruanda è fra le più alte: si contano infatti più di centomila minori che vivono in 42 mila nuclei familiari. Si tratta di bambini rimasti soli, perché i genitori sono state vittime del genocidio, o perché morti di AIDS, o assenti in quanto imprigionati per reati connessi ai massacri del 1994. Si stima che entro il 2010 il Ruanda avrà più di 350 mila bambini orfani. A ciò si aggiunge l’alto tasso di mortalità infantile: 1 bambino su 5 non raggiunge il quinto anno di vita.
La giustizia dopo i massacri
Nel mese di maggio 1994, la commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha incaricato il suo relatore speciale, René Degni-Ségui, di condurre un’inchiesta sui massacri in corso. Dai rapporti redatti emergeva chiaramente il carattere di genocidio dei massacri perpetrati in Ruanda. L’8 novembre 1994, la risoluzione n. 955 del Consiglio di Sicurezza istitutiva ufficialmente il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha (Tanzania). La scelta di affidarsi al diritto internazionale scaturiva dall’esigenza di indirizzarsi ad un organo che desse garanzie di assoluta indipendenza e imparzialità. Il Tribunale è formato da due camere, composte ciascuna da tre giudici eletti dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite su proposta del Consiglio di Sicurezza. Le sentenze del Tribunale dall’inizio dei suoi lavori nel 1995 al 2003 sono soltanto 17. Questo numero si spiega col fatto che i giudici, considerate le strutture e le lentezze processuali, sono in grado di celebrare soltanto qualche centinaio di processi l’anno. Per tale ragione il governo ha deciso di affidarsi ai cosiddetti gacaca, termine che in lingua kinyarwanda significa “prato della giustizia”. Tradizionalmente, i gacaca erano sistemi di amministrazione della giustizia largamente in uso nei villaggi. La comunità si riuniva in un prato per discutere del problema. Poi, un’élite di saggi prendeva una decisione al fine di dirimere la questione. Come ha ricordato Amnesty International, all’indomani del genocidio i tribunali di comunità, i gacaca, hanno processato oltre due milioni di persone. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha condannato 62 persone, tra cui ex alti funzionari del governo e altre persone che ebbero un ruolo di primo piano nel genocidio.
a cura di Silvia C. Turrin