Piccolo arcipelago al largo del Gabon, prende il nome dall’apostolo Tommaso: fu nel giorno della sua festa che i navigatori portoghesi João de Santarém e Pedro Escobar lo scoprirono, nel lontano 1470.
In quegli anni erano disabitate. Trovato un suolo vulcanico molto fertile, i portoghesi vi si fermarono e iniziarono ad abbattere porzioni di foresta tropicale per praticare l’agricoltura. Ma il lavoro dei campi in quei climi è micidiale per gli europei. Per questo iniziarono a trasportare lavoratori dall’Angola, prima uomini liberi, e poi sempre di più schiavi.
São Tomé è diventato così il primo Paese all’epoca a sperimentare il lavoro schiavistico nella produzione agricola su larga scala, in quei primi anni specialmente la canna da zucchero.
Con la scoperta del Centro e Sud-America, e le prospettive di sfruttamento dei loro suoli e sottosuoli, si aprì un mercato immenso di manodopera. I portoghesi affiancarono all’agricoltura un’altra attività economica ben più redditizia: il commercio degli schiavi sulle rotte atlantiche.
São Tomé e Príncipe diventano così degli importanti porti di smistamento degli schiavi catturati dai portoghesi sulle coste e nell’entroterra angolano e congolese, e destinati alle piantagioni della neo-colonia del Brasile.
È il primo Paese africano ad avere introdotto la coltivazione del cacao, già nel 1822: un coltivatore brasiliano, Jose Ferreira Gomes, si era accorto che il suolo dell’isola di São Tomé si adattava perfettamente alla coltivazione delle “fave d’oro”, in particolare una varietà di cacao molto redditizia, il “forastero”.
Altri coltivatori brasiliani, non contenti degli sbandamenti economici e politici del Brasile divenuto indipendente nello stesso anno, lo imitarono, e una trentina di anni dopo anche l’isola di Príncipe cominciò ad esportare il cacao. Naturalmente tutto il duro lavoro agricolo era affidato alle braccia di schiavi importati sempre più numerosi dalle vicine coste dell’Africa centrale.
Ma chi diede un impulso decisivo alla coltivazione del cacao, e rese São Tomé una località conosciuta in tutta Europa fu il “barone d’Água Izé”, al secolo José Maria de Sousa e Almeida, portoghese intraprendente, che creò delle enormi piantagioni, e divenne il fornitore unico delle industrie di cioccolato inglesi Fry e Cadbury.
Nella seconda metà dell’Ottocento il 90% dei suoli coltivabili delle due isole erano coperti dalle piante del cacao. Ma la cecità dei ricchi coltivatori dell’ “isola-cioccolato” ne provocò il declino: da decenni la schiavitù era stata abolita, nel vecchio e nel nuovo mondo, ma a São Tomé si continuava ostinatamente a praticarla.
Una campagna di stampa abolizionista in Inghilterra obbligò i cioccolatai Fry e Cadbury a rescindere i contratti con i produttori santomensi. E ciò fece la fortuna del Ghana, che in quegli anni tentava di adattare il cacao ai suoi suoli.
Anche la colonia portoghese, finalmente, nel 1878 abolì il lavoro schiavistico, ma ormai era troppo tardi. Il declino era inevitabile, e lentamente São Tomé e Príncipe ritornò nell’oblio.
Oggi ha una popolazione di 153.000 abitanti, di cui solo 6.000 vivono a Principe. La sua economia è ancora basata sull’agricoltura, ma praticata in modo poco redditizio. Senza gli aiuti internazionali, in particolare di Angola e Portogallo, lo Stato non potrebbe funzionare.
Da qualche anno si è tentato di lanciare il turismo, e qualche produttore europeo (tra loro anche degli italiani) sta sperimentando l’agricoltura biologia.
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