Pretoria, 12 settembre 1977. Una data spartiacque nella storia del Sudafrica. In quel giorno moriva, a soli 30 anni, Stephen Biko, esponente anti-apartheid, a causa delle torture subite in detenzione. Perché una data spartiacque? Perché l’opinione pubblica internazionale, grazie al coraggio e alla sete di verità e giustizia del giornalista sudafricano Donald Woods, poté comprendere la reale natura repressiva e brutale del governo sudafricano dell’epoca. Woods riuscì a smantellare completamente la versione ufficiale dell’allora Ministro della Giustizia e della Polizia, James Kruger, secondo cui Biko morì in prigione per uno sciopero della fame. Proprio grazie alla tenacia di Donald Woods – dai cui libri (pubblicati in esilio) venne realizzato da Richard Attenborough il film “Cry Freedom” – e al sostegno di altre figure anti-apartheid emerse chiaramente come Biko fosse deceduto a causa delle torture e delle gravi percosse subite in carcere. Atti violenti che gli avevano provocato non solo contusioni e ferite costali, ma anche un grave danno cerebrale che gli ha provocato il decesso.
Abbiamo già parlato degli eventi accaduti nel 1977 che provocarono la morte di Biko: si veda l’Articolo dal titolo “L’attualità delle idee di Stephen Biko a 43 anni dalla sua morte”.
Qui vogliamo piuttosto spiegare le principali idee di Biko che forgiarono la dimensione politico-culturale e l’azione del Black Consciousness Movement (il Movimento della Consapevolezza Nera).
Idee che misero in allarme le autorità governative, in quanto considerate pericolose e destabilizzanti per lo status quo razzista, espresso tramite la separazione istituzionalizzata del regime di apartheid.
Le basi del pensiero di Biko
Secondo Stephen Biko, il processo di negazione dell’umanità dei neri ha avuto inizio con la colonizzazione della terra sudafricana da parte degli europei. Attraverso una lunga, capillare oppressione fisica, culturale e religiosa, gli africani sono stati privati della loro vera natura umana e del loro coraggio, e trasformati in esseri servili, in manodopera a basso costo da sfruttare a vantaggio dell’economia dei bianchi.
Prendere atto di questo tipo di asservimento rappresentava una parte integrante del Black Consciousness Movement che, lo ricordiamo, era l’unica voce anti-sistema dopo che l’ANC e il PAC (storici partiti anti-apartheid) vennero messi al bando e considerati illegali.
Il Black Consciousness Movement e le idee di Biko furono fondamentali per il germogliare, dopo il 1977, di una nuova generazione di sudafricani non più passiva e intimorita. Lo dimostrarono già, nel 1976, gli studenti contrari all’imposizione dell’afrikaans come lingua veicolare nel settore dell’educazione scolastica. L’afrikaans era considerato l’idioma dell’oppressore che avrebbe alimentato il sistema di asservimento. E proprio questa, fu tra le principali motivazioni della rivolta di Soweto nel giugno 1976 (per approfondire, leggi l’Articolo “Il 44° anniversario della rivolta di Soweto”).
Una nuova e positiva identità nera
Spesso tacciato di razzismo al contrario, il Black Consciousness Movement partiva da un assunto fondamentale: per contrastare il regime razzista e la separazione dell’apartheid occorreva infondere nuova linfa vitale nella comunità nera. Occorreva, in pratica, creare quell’humus che avrebbe plasmato una nuova e positiva identità Black. Per farlo, Biko e gli altri esponenti del Movimento recuperarono la cultura, le tradizioni e i valori tipicamente africani.
Come scrivo nel mio libro (edito da Erga) dedicato proprio al Black Consciousness Movement, il BCM si basava su di una complessa multi-dimensionalità concettuale volta ad avviare un percorso di emancipazione tra gli oppressi.
Da un lato, vi era l’aspetto psicologico, attraverso cui si invitava la comunità nera a prendere coscienza del proprio status subalterno nella società sudafricana. Solo attraverso questa comprensione sarebbe stato possibile iniziare un reale cambiamento all’interno di una struttura sociale imperniata sul razzismo.
Dall’altro lato, occorreva creare nei black un’identità positiva, infondendo loro autostima e dignità, eliminando così definitivamente quel complesso di inferiorità interiorizzato nel corso di tre lunghi secoli di dominazione culturale e politica.
Slogan quali Black is beautiful e Black man you are on your own avevano il chiaro intento di sviluppare uno specifico orgoglio nero. Per incentivare un’identità positiva, accanto alla dimensione psicologica, venne considerata quella culturale, tramite cui recuperare ed enfatizzare le tradizioni, i valori e i costumi tipicamente africani. Non secondario era il recupero della storia africana e sudafricana, non più deformata dai pregiudizi razziali inseriti nei libri di storia dai coloni europei.
Queste premesse rappresentavano le fondamenta su cui poi avviare una concreta, efficace azione politica anti-apartheid. Solo una volta compiuto il processo di coscientizzazione (per usare un’espressione diffusa da Paulo Freire) della comunità nera tramite un lavoro psicologico e culturale sarebbe stata attuabile la liberazione degli oppressi.
Non a caso, tra i messaggi più noti di Biko vi è proprio quello che mette l’accento sul potere della psiche per cambiare la società:
“L’arma più potente nelle mani dell’oppressore, è la mente dell’oppresso”.
Biko e il BCM hanno agito affinché la mente dell’oppresso si liberasse dalle catene dell’asservimento e del razzismo.
Un messaggio che si rivela ancora tristemente attuale, in varie parti dell’Africa e del mondo.
Silvia C. Turrin