Riportiamo di seguito questo scritto di p. Filippo, missionario comboniano, in cui spiega in modo approfondito come si è giunti a questo nuovo conflitto in Sudan. Lo scontro ai vertici trascina il popolo verso il baratro. Ma, nonostante tutto, qualcosa di realmente nuovo si affaccia sulla scena di un paese che lotta contro il suo passato

sudan cartina confini

Quante volte, sulla stuoia, nei campi profughi al confine tra Ciad e Sudan, sono rimasto a parlare per ore con i rifugiati del Darfur! Tra un sorso di the e un piatto di “ech”, la polenta di miglio, i racconti della loro terra, lungo il versante orientale del Sudan, devastata dalle incursioni dei “diavoli a cavallo”, i Janjaweed. Paramilitari spietati che, dal 2003, al soldo del presidente Omar Al Bashir, hanno razziato villaggi, intascato l’oro delle miniere, represso la storica dissidenza della regione nei confronti del potere centrale, stuprato donne e rapito bambini. Ho visto con i miei occhi le case distrutte al confine con il Ciad dalle schegge impazzite, nuclei di mercenari sfuggiti al controllo dell’esercito e pastori di cammelli immischiati negli interessi economici che contano, sempre pronti a nuove incursioni per poi nascondersi, all’occorrenza, nei villaggi.

Senza mai aver deposto le armi, i Janjaweed, si sono reinventati nel corso degli anni, andando a costituire l’ossatura delle Forze di intervento rapido (RSF), un corpo “speciale” dell’esercito incaricato delle operazioni “sporche” (sono loro gli autori del massacro di oltre 100 manifestanti il 3 giugno del 2019), del controllo delle frontiere e del blocco del passaggio dei migranti. Servizio ben pagato anche dall’Unione Europea, che ha l’incubo di altri migranti alle frontiere, e forze addestrate dagli stessi militari italiani! Un corpo talmente potente per risorse e ruolo giocato, dotato oggi di oltre 10mila pick-up armati, che il vecchio dittatore Bashir, nel 2017, gli concede lo status di forza di sicurezza indipendente.

Dal 2013 li guida l’uomo più potente e ricco del paese, capace di tenerlo in scacco: Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”. Originario del Darfur e discendente di una famiglia di allevatori di cammelli, sotto copertura del suo gruppo, controlla le operazioni di estrazione dell’oro in Sudan in combutta con la Russia. Tra il 2011 e il 2020 ne sarebbero state estratte 629 tonnellate. Il 90% dei proventi di quelle entrate, 13.8 miliardi di dollari, non sarebbe però transitato dalle casse dello Stato, ma tra i loschi giri degli interessi militari in accordo con i paramilitari russi della Wagner. Due le compagnie di copertura del gruppo Wagner in Sudan: la Meroe Gold e la M-Invest. Società già sanzionate per il ruolo avuto nel commercio illegale di oro e diamanti razziati con la forza dai commercianti locali. Secondo un inchiesta del 2022 della CNN, le ricchezze del Sudan sarebbero state saccheggiate da Mosca per fortificarsi contro le severe sanzioni occidentali e per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina. In cambio di armi.

Mentre una stretta cerchia si è così arricchita e armata a dismisura, il popolo sfiora la fame. Quando nel dicembre del 2018 il prezzo del pane triplica, alla gente non resta che la piazza. Per cinque lunghi mesi i manifestanti non mollano la presa finché l’11 aprile del 2019 riescono a far cadere il presidente-dittatore Omar Al Bashir, al potere da trent’anni e ricercato dal Tribunale Internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità commessi proprio in Darfur. Tra l’entusiasmo della folla, la comprensibile rivendicazione dei civili per l’accesso al potere e il peso dei militari che non mollano la presa anche attraverso sanguinose repressioni, si susseguono mesi di trattativa intensa che convergono, nell’agosto di quell’anno, nella costituzione di un governo di transizione. Civili e militari, i veri attori collettivi del confronto serrato per accedere ai posti chiave del paese, innescano un periodo di apertura a riforme essenziali per il paese, l’accordo di pace con la maggioranza dei gruppi armati, firmato nell’agosto del 2020, e un percorso verso la nuova fase di democratizzazione sotto le ali del nuovo premier tecnico Abdalla Hamdok.

L’intesa tra i nuovi protagonisti del paese, i civili, che hanno sostenuto la rivoluzione e i vecchi ossi duri del regime, cresciuti sotto le ali del presidente deposto Bashir, che invece della rivoluzione si sono serviti, armi in mano, per continuare a mettere le mani sulle ricchezze del paese, doveva portare gradualmente ad un governo finalmente espressione delle forze democratiche di un paese ormai fuori dalla “militaro-crazia”. Prospettiva alquanto minacciosa per i militari che così avrebbero dovuto rientrare nelle caserme abbandonando le piazze degli affari.

Approfittando pertanto di un economia traballante che tornava a far lievitare i prezzi delle materie prime e dei carburanti nel settembre del 2021, i militari falliscono un tentativo di colpo di Stato, ma vi riescono appena un mese dopo. Colgono al balzo l’occasione di una deriva economica che sembra far tornare necessario sulla scena il pugno duro degli uomini forti. Il 25 ottobre 2021, all’avvicinarsi della loro uscita di scena, i militari si impongono con la forza e viene designato come nuovo presidente del Consiglio Sovrano il generale Abdel Al Burhan, mentre Hemeti, nominato suo vice, resta nell’ombra a tessere la sua fitta rete di intrallazzi economici e politici per mantenere lo status quo. Ma anche per reprimere con ancor più violenza l’ondata di sdegno dei manifestati, che ancora scendono per le strade per lunghi mesi ad esprimere la loro contrarietà al nuovo corso che riporta indietro il paese. Saranno oltre cento le vittime rimaste colpite dalle RSF e dagli altri militari nel corso delle affollatissime manifestazioni popolari. Lo stesso premier Hamdok, dopo un primo periodo di tentennamento, ormai un manichino nelle mani militari, si dimette all’inizio del 2022.

Le lancette della storia sembrano tornate indietro di tre anni. Esattamente come prima si susseguono lunghi mesi di manifestazioni incessanti in tutto il paese e di trattative con i civili, mentre l’economia gira sempre nelle solite tasche. Nel giugno dello scorso anno si apre un nuovo processo di Dialogo Nazionale per cercare, su forte pressione internazionale, di trovare nuovi accordi. Questi arrivano solo alla fine del 2022 con l’intesa sul trasferimento del potere: due anni di governo a guida civile prima di tornare alle urne.

Ma quando quell’accordo deve essere firmato, il 1 aprile scorso, e si fa seria l’ipotesi di una svolta democratica, ecco riapparire all’orizzonte le solite tempeste per bloccare l’alba di un tempo nuovo per il Sudan.

Sabato 15 aprile scoppiano le ostilità tra i militari stessi ai vertici del paese divisi sul da farsi: da una parte, il presidente Al Burhan, a capo delle forze armate e apparentemente aperto alla nuova fase da intraprendersi che prevedeva anche il confluire delle RSF nelle fila dell’esercito nazionale, e dall’altra Hemeti, che lancia, col sostegno dei paramilitari russi della Wagner, le sue RSF all’assalto del palazzo presidenziale e dell’aeroporto.

La divisione tra i due schieramenti rispecchia quella dei blocchi di potere e di interessi sulla sfera internazionale. A sostegno del presidente, vi sono Egitto, Arabia Saudita e Cina. A manforte del suo vice, Russia, con i suoi paramilitari della Wagner, ormai presenti in 8 paesi africani (Libia, Sudan, Mozambico, Madagascar, Mali, Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centrafricana), Etiopia, Eritrea, Emirati Arabi. Pazzesco, ma non certo inedito il nuovo “disordine internazionale” fondato sul piedistallo del puro interesse economico che varia a seconda delle latitudini: Cina e Russia unite in Ucraina e divise in Sudan. Egitto e Russia uniti in Libia a favore del generale Haftar, che controlla la Cirenaica, e divisi in Sudan. Arabia Saudita che si avvale, nel recente passato, del sostegno militare di Hemeti e delle sue RSF per combattere in Yemen contro il ribelli huthi, sostenuti dall’Iran, e che ora gli volta le spalle per appoggiare il suo rivale.

Sullo sfondo degli equilibri geopolitici anche la contesa tra Etiopia ed Egitto per il più grande progetto idroelettrico africano, la GERD (diga della Rinascita). Un mastodontico progetto, il più grande del continente africano, che si avvale delle acque del Nilo Azzurro che attraversano il Sudan, per portare energia elettrica all’Etiopia in netta espansione economica e demografica (oltre 110 milioni di abitanti) sottraendole all’Egitto, altro colosso di oltre 100 milioni di abitanti, che storicamente vive dell’oro blu” del fiume più lungo al mondo.

Si combatte per il controllo della capitale e dei suoi punti chiave: palazzo presidenziale, aeroporto, tv di Stato e mezzi di comunicazione. Un conflitto che in meno di 24 ore si è esteso a tutto il paese, con particolare intensità in quel Darfur che è all’origine della contesa, e che rischia di portarlo sull’orlo di una guerra civile, ormai diverse persone a Khartoum, capitale del paese, sono senza acqua e corrente.

Alcune indiscrezioni parlano di soldati che dalla frontiera ciadiana vengono a dar manforte alle truppe di Hemeti, un contingente che può contare tra gli 80 e i 100mila soldati, mentre si moltiplicano gli appelli internazionali a sospendere le ostilità. L’IGAD, l’autorità regionale, ha nominato un improbabile team di mediatori per il conflitto composta dai presidenti di Sud Sudan, Kenya e Gibuti. Non possono nemmeno atterrare in un aeroporto di fatto impraticabile. Per ben due volte sono stati proclamati momenti di tregua al fine di evacuare i civili feriti, ma la realtà dice che gli spari non si fermano. E anzi ci sono stati attacchi al personale diplomatico e ad operatori umanitari al punto che il PAM, il Programma Alimentare Mondiale, ha dovuto sospendere le sua attività dopo l’uccisione di tre suoi funzionari a El Fasher, in Darfur.

Sul terreno intanto si parla di quasi 300 morti e 2.600 feriti che trovano difficoltà ad essere assistiti dagli ospedali del paese, 16 dei quali fuori uso e senza medicinali. La terra di Daniele Comboni, il missionario che a metà ottocento ha dato la vita per il riscatto degli schiavi e dei popoli africani, cominciando proprio dal Sudan, è oggi allo stremo.

L’unica nota di speranza è l’anelito di libertà mai del tutto sopito nei cuori dei sudanesi che hanno fatto una rivoluzione nonviolenta. Un sogno alimentato dal sangue dei martiri che già cammina coi piedi per terra di tanti giovani, uomini e donne che hanno aperto il varco del nuovo Sudan. Una breccia incontenibile che neanche la guerra potrà seppellire.

P. Filippo
missionario comboniano

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foto: unhcr.org