Erano circa 800 i rifugiati eritrei e sudanesi che giovedì 22 febbraio hanno manifestato nel sud di Israele, vicino al confine con l’Egitto. Hanno marciato dal centro di semi-detenzione di Holot alla prigione di Saharonim. Hanno voluto dire no alla minaccia del governo di Netanyahu di espellere 40.000 africani entrati illegalmente nel paese.
Il governo israeliano ha adottato un decreto che pone i rifugiati di fronte a questa alternativa: essere rimpatriati “volontariamente” verso un altro paese africano, oppure essere incarcerati in Israele per un tempo indeterminato.
750 migranti, confinati nel centro di semi-detenzione di Holot, hanno cominciato uno sciopero della fame, dopo che i primi 18 loro compagni sono stati trasferiti in prigione, in applicazione di questo decreto.
Il 90% dei rifugiati presenti in Israele provengono da due paesi governati da regime dittatoriali, il Sudan e l’Eritrea. Sono giunti in Israele attraverso il Sinai. Il rifugiato che accetta la proposta di rimpatrio, riceverà 3.500 dollari e sarà trasportato in Ruanda o in Uganda. Finora però nessun responsabile politico di questi due paesi ha confermato di avere accettato la proposta di Israele.
L’atteggiamento di Israele verso i rifugiati e richiedenti asilo provenienti dall’Africa in questi anni è stato abbastanza mutevole. All’inizio si concedeva ai rifugiati un visto provvisorio rinnovabile, della durata di alcuni mesi. Non autorizzava i migranti a procurarsi un impiego, ma, se ciò accadeva, nessuna pena era prevista per gli eventuali datori di lavoro israeliani.
Poi c’è stata una stretta: coloro che sono entrati illegalmente sono stati concentrati in campi di detenzione per un tempo indefinito, che poi la Corte costituzionale ha ridotto a massimo un anno. E si è cominciato in sordina a dare dei soldi ai migranti che accettavano di partire per paesi africani su cui si è tenuto il segreto. Ora Netanyahu è deciso a imporre l’alternativa: rimpatrio volontario o imprigionamento.
Israele dal 2009 ha sollevato l’Alto Commissariato per i rifugiati (agenzia dell’ONU) dal compito di ricevere le richieste di asilo. Dice di volere gestire da solo questo problema, ma di fatto ha sospeso la concessione dello status di rifugiato ai migranti provenienti da quelle situazioni di persecuzione e insicurezza politica nei loro paesi, previste dalla convenzione di Ginevra del 1951.
Per un sudanese o un eritreo oggi è quasi impossibile far valere il suo diritto di inoltrare una domanda di asilo al governo israeliano. Gli vengono continuamente contestati impedimenti o difficoltà burocratiche.
Intanto la società civile israeliana si sta mobilitando contro la decisione del governo di deportare i migranti africani. Alcuni rabbini hanno promesso che nasconderanno i rifugiati nelle loro sinagoghe; un gruppo di piloti della compagnia nazionale El Al ha dichiarato che si rifiuterà di prenderli a bordo, se imbarcati a forza. Le organizzazioni israeliane per i diritti umani, e diverse associazioni di ebrei fuori di Israele, hanno fatto pressione sul presidente del Ruanda, Kagame, il quale si è affrettato a dichiarare che negozierà con Israele solo sulla base delle leggi internazionali in materia.